Il deserto verticale.
I monti dell’Anti Atlante in Marocco.
Si può fare ottimo trekking in Marocco, al di fuori della classica ascensione al monte Jebel Toubkal, cima maggiore dei monti dell’Atlante vicino alla città di Marrakesch. Occorre spingersi più a sud, nella regione Souss Massa, confinante con il deserto del Sahara, dove prende forma un massiccio montuoso più piccolo e con monti mediamente più bassi dei 4000m delle maggiori cime dell’Atlante. Si tratta della catena dell’Anti Atlante, la terza e ultima catena montuosa che si sviluppa anch’essa secondo la direttrice sud-ovest nord-est, tipica delle montagne marocchine. Questi monti sono anche i più antichi del Marocco, caratterizzati da rocce dal colore rossastro per la presenza di quarzite, datate quindi molto precedenti ai monti del Rif o dell’Atlante. L’escursione prende corpo dal paese di Tafraout, che si raggiunge da Agadir con un viaggio in auto di circa 3 ore, attraversando prima una stepposa pianura prospiciente l’oceano Atlantico e poi inerpicandosi nei contrafforti nord della catena, spezzata da diversi canyon, dove la scarsa acqua presente si fa strada tra imponenti pareti rossastre, in una congerie di meandri che si perdono a vista d’occhio.
La strada è punteggiata da minuscoli agglomerati, come la kasbah Tizourgane, qualcuno fantasma, non più abitato, con la gente trasferita probabilmente in città viste le difficili condizioni di vita. Superato il passo di Tifghalt sulla rr104 si scende, invertendo il senso di marcia verso la rigogliosa valle di Ammeln, attraversata da uno dei bracci del torrente Massa che dà il nome alla regione e sfocia nell’Oceano atlantico all’interno dell’omonimo parco marino. Qui appunto giace Tafraut, piccolo paese dove si può trovare tutto il necessario prima di iniziare il trekking sulla cima del monte Jebel ELkest (2365m), il più alto dei monti della zona. Con un mezzo idoneo ci si porta alla località di Tagdicht, situata intorno ai 1400 m di altezza, usata come rifugio dagli abitanti della valle nelle afose giornate estive. Il sentiero per salire è disegnato in quasi tutte le app che si trovano in commercio ed anche il gps per seguirle è sempre presente in ogni angolo del monte (io ho usato maps.me che ha il pregio di poter scaricare le mappe offline ), ma si consiglia vivamente di ingaggiare una guida locale perché risulta molto facile perdersi dato che i segnali presenti sono dati quasi esclusivamente da omini di pietra difficilmente distinguibili in un paesaggio denominato da rocce, massi, detriti, che ingombrano ogni passo del cammino.
In termini tecnici tra andata e ritorno dalla cima del monte abbiamo percorso circa 22km con 2000 metri di dislivello equamente divisi tra salita e discesa, il tempo impiegato per la salita quasi cinque ore mentre per la discesa ne bastano tre. Il grado di difficoltà fa inserire il percorso nella fascia EE (escursionisti esperti), data la lunghezza e la presenza di qualche passaggio esposto a valle in brevi tratti all’inizio del percorso, dove per lasciare il paese si deve affrontare una falesia di bellissime e compatte rocce rossastre. Poi il percorso si eleva sempre arcigno, con brevi ripiani pianeggianti dove si può riposare prima di riprendere slancio. Il paesaggio è caratterizzato dalla forma degli alberi di Argan , che producono abbondanti bacche, il cui prezioso olio trova un ampio utilizzo in cucina e nella cultura della bellezza, e dalle palme nell’oasi . Possiamo trovare altra vegetazione spinosa come cactus, fichi d’india e la bella ma sgradevole Euphorbia ovunque lungo i sentieri di avvicinamento e su molte vie di arrampicata; l’Euphorbia cresce principalmente sui pendii e sulle pareti scoscese esposte a sud e deve essere evitata a causa del suo irritante bianco latte. Tra la fauna spiccano mufloni, cinghiali e aquile reali, di cui però nella nostra esperienza non abbiamo visto traccia.
Nella stagione calda sono presenti scorpioni e varie tipi di serpenti velenosi, onde per cui le migliori stagioni per salire sono da ottobre fino alla primavera, con climi temperati e l’assenza di codesti ospiti striscianti.
Quando si giunge all’anticima di EL’kest si incrocia il sentiero che sale da ovest, quindi ci si dirige sul sentiero di destra salendo su uno scosceso pendio orlato da un boschetto fino alla base della cima, che appare essere come un enorme carapace di testuggine color arancione. Si sale finchè la parete verticale offre un passaggio piu’ dolce che permette di camminare sul dorso della “testuggine” fino alla cima da cui si gode una vista incomparabile, che spazia verso la piana di Agadir e l’Oceano a nord-ovest ed il deserto e le altre cime del piccolo Atlante a sud-est. La presenza di un rifugio in pietra ed un pozzo di raccolta di acqua piovana sono le testimonianze della presenza nel secolo 19esimo di un santo islamico (marabutto) che qui visse a lungo in eremitaggio, sepolto proprio nella cima del monte.
Da allora vige l’usanza per le due tribù di beduini che abitano la zona di salire ogni anno sulla cima del monte, e pregare nella piccola e fatiscente moschea in pietra eretta dal santo marabutto.
Appare curioso come questa imponente catena montuosa sia stata “scoperta” dal turismo in tempi relativamente recenti (1991), da un gruppo di rocciatori inglesi che da allora hanno tracciato ed armato almeno 1200 vie di salita, di cui una delle più famose è la “testa di Leone” che fa bella mostra di sé nella rigogliosa valle di Ammeln. L’anti Atlante, grazie alle splendide formazioni di quarzite arancione onnipresenti, appare molto più “elegante” del fratello maggiore Alto Atlante, anche per una naturale inclinazione alla meditazione e al tempo dilatato che offrono i paesaggi semidesertici come questo, che io definirei “deserto verticale”. Luoghi che non lasciano certo indifferenti anche per una genetica dolcezza e tranquillità delle genti beduine presenti da tempi immemori in queste lande.
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Pasqua al Fersinone.
2-aprile-2021
Troppo bella la giornata perchè non approfittassi di andare lungo il corso del torrente Fersinone in un periodo dove ancora c’è abbondanza di acque nel suo alveo. Ho lasciato l’auto al paese di Migliano, e preso il sentiero classificato M14 per mountain bike, lungo il corso della seconda tappa della via Volsinia. L’attacco del sentiero è stato bonificato dai lavori svolti dal comune di Marsciano, che ha messo in sicurezza la fogna che scende dal paese con un manufatto in cemento un po’ invasivo ma efficace. Il sentiero scende lungo il fianco delle colline che costeggiano la gola fluviale, in un paesaggio all’inizio aspro e con terreno altamente friabile e marnoso, per poi diventare più umido e boscato nei pressi del corso fluviale. Dopo la Rupefalcaia, un km prima del guado, ho trovato un sentiero che porta alla celebre “Buca del diavlo”, incredibile sito unico nel suo genere ,una grotta sopra la falesia a strapiombo sul fiume 50 metri più sotto. L’ingresso è nascosto da una fila di alberi che si aggrappano alle rocce strapiombanti. La parte finale del sentiero è difficoltosa ed un po’ esposta. Rimane sempre il dubbio se bonificarla con qualche cima di appoggio o lasciarla come madre natura l’ha fatta. Non ho molta fiducia nella gente, penso che lascerebbero con facilità qualche segno plastico del loro passaggio, e questo luogo non merita sfregi alla sua selvaggia bellezza.Le foto non rendono merito ma qualcosa fanno capire.
Ripreso il sentiero principale sono sceso fino al guado e poi sceso lungo il corso del torrente fino a ritrovarmi alla base della falesia che ospita la grotta.Lì c’è la Gorga, la più bella piscina naturale del Fersinone.L’acqua è trasparente e gelida, impossibile farvi il bagno come mi hanno confermato dei ragazzi intenti a prendere il sole lungo le rocce che la orlano.
Se guardate quest’ultima immagine nell’angolo in alto a destra si vede lo spigolo boscato della falesia che scende verticale nell’alveo del torrente, dietro la vegetazione c’è l’ingresso della grotta. Luoghi veramente unici.
La Via Volsinia in tre giorni.
28-30 agosto 2020.
L’ultimo venerdì del mese di agosto l’appuntamento era sulle “scalette” del Duomo di Perugia, pronti per percorrere la Via Volsinia nell’arco di tre giorni, per ritrovarci al duomo di Orvieto la domenica pomeriggio 30 agosto,dopo una “cavalcata” di 73 chilometri tra le campagne umbre.
Uno sparuto gruppetto, come si attiene ai veri pionieri, a cui si aggiungeranno lungo la strada altri amici che ci daranno compagnia e sostegno fino ad Orvieto.L’inizio non è stato dei migliori; attendevo,alle otto del mattino,una piazza IV novembre contemplativa, con il venticello fresco che sboccava dai vicoli in ombra,il brusio degli stormi di piccioni in
cerca di cibo, le voci rade dei commercianti ad aprire le saracinesche dei loro negozi, magari qualche vigile in uniforme che allungava il passo verso il posto di guardia sotto il Palazzo Comunale. No, ci accoglie lo sferragliare di decine e decine di moto di grossa cilindrata, accampate accanto alla Fontana Maggiore, guidatori quasi tutti con giubbotti di pelle nera
e fazzolettino rosso di ordinanza sul collo. Quasi imbarazzati, attesi gli ultimi ritardatari,ci allontaniamo rapidamente da quella piazza che ci appare ostile ed estranea, la gloria della partenza offuscato da marmitte catalitiche e rumori alieni. La bellezza di Perugia però è dietro l’angolo,letteralmente, già in piazza Matteotti e giù giù nelle sinuose scalette di S.Ercolano il suono ed il respiro della città ritornano quelli di sempre, le chiacchiere dei viandanti si fanno rilassate, il sole dardeggia tra le tante porte medioevali
che incontriamo lungo il Borgobello, tra profumi di cialde e caffè, la città si allarga, apre le braccia letteralmente alla campagna,si fa rada ai primi incroci di una periferia che periferia non fa in tempo ad essere. Dopo due chilometri di cammino siamo già fuori, la campagna degli orti ai pensionati, delle api piaggio, dei latrati dei cani in anguste gabbie, stipati per l’incombente stagione della caccia. Magari orlata da una ferrovia dove non si vede mai passare un treno, la riconosci solo per l’odore acre delle traversine di legno
imbullonate ai binari. La bianca carrareccia si apre il varco in prati ancora stranamente verdeggianti, l’occhio ora può scandagliare la lontananza, non trovando ostacoli al suo passaggio. Non è ancora campagna,ma una via di mezzo, tra orti,villette pretenziose costruite nel tempo libero,pozzi artesiani, un’ aia con delle belanti capre, ed un brusio di fondo,
lievemente minaccioso, il traffico delle principali arterie che conducono alle zone industriali, agli ospedali di cui vediamo il riverbero dei tetti e delle vetrate al generoso sole agostano.
Saltiamo arterie stradali che, concentriche, incoronano la città, ma tutto molto rapidamente, come intrusi bipedi nel trionfante mondo a quattro ruote, saliamo lungo la collinetta denominata Vestricciano, da lì misuriamo come geometri la distanza dal centro città, identificabile dalle guglie delle tante chiese che ne caratterizzano la skyline.
La valle del torrente Genna appare un lungo campo da biliardo tra la collina di Boneggio e la cresta dove si inerpica la trafficata Settevalli, neanche un suono molesto che non sia quello delle cicale ebbre di sole e calore. Qui la strada bianca diventa molle e seducente,orla campi intensamente coltivati, ma ora spogli,fossi prosciugati dalla calura estiva, lo sguardo
la vede incunearsi come biscia in un paesaggio che appare all’orizzonte piatto.
Sotto l’abitato di S. Martino in Colle lasciamo per sempre gli ultimi scampoli del mondo di mezzo, il suo margine è il ponticello pedonale che ci permette di attraversare il torrente Genna. Dopo c’è la campagna, filari di viti, siepi agli orli dei campi, laghetti artificiali per l’irrigazione di mais e girasole,morbide colline verde-marrone coltivate a favetta ed erba medica per le “bestie”.
Un ponticello in cemento segna il confine con il comune di Marsciano, incontriamo un monumento in mezzo al nulla,francamente kitsch, brutto, con un intelaiatura in metallo e parti in maiolica dedicato a Santa Scolastica, patrona dei viandanti.
Comincia a fare caldo, i visi dei compagni sono arrossati sotto i cappellini e gli occhiali da sole, la sosta al paesino di Badiola, civettuolo al culmine della collinetta, esce a proposito.
Prendiamo d’assalto la fontana al centro del paese, ci rinfreschiamo sotto il pergolato del deserto circolo Arci; non un segno di vita se si eccettua una signora intenta a caricare materiale nella sua macchina.
Ora il sole picchia duro, siamo alle due pomeridiane, aspettiamo invano qualche nuvoletta che ci ripari un pò dal potente sole agostano. Alla fine decidiamo di ripartire, ebbri di sudore e di calore, impossibilitati a pensare di riposare un po’. Decidiamo di provare un percorso alternativo che si rivelerà essere più lungo e asfaltato.Quando il sole picchia duro,camminare
sull’asfalto è una delle cose peggiori che si possano fare, la salita verso il paese di Spina diventa un calvario nel quale osservo il ventaglio di sofferenze stampate nelle facce di ognuno dei partecipanti alla camminata, si sale solo per resistenza psicologica, il fisico completamente svuotato di ogni liquido e forza. Sono oramai 24 i chilometri percorsi in un giorno, ne rimangono
tre per arrivare al traguardo giornaliero. Un fresco venticello al quasi vespero, ci accompagna fino alla meta agognata, il paesino di Mercatello,sviluppatosi in piani sovrapposti tra la piana alluvionale del torrente Nestore e le prime colline boscate dove l’agricoltura diventa silvicoltura, dove un’ aguzza chiesa campestre finto gotico in mattoncini è sormontata dal Castello di Montevibiano Nuovo, borgo in fase di restauro con un bell’orologio (finto) a muro che introduce,attraverso un portone a sesto acuto, entro la minuscola cinta urbana, da cui si gode una vista clamorosa fino alla città lasciata appena stamattina,che risulta così distante da far intravedere solo la massiccia sagoma dell’imponente campanile della chiesa di San Domenico al Borgobello.
Soddisfatti ciabattiamo per i vicoli a sbalzo del paesino, mangiamo all’aperto e socializziamo con quell’armonia conquistata dal fare comune,dalla fatica condivisa, membra stanche di quella stanchezza
che mette languore,dolcezza, pienezza nelle cose e negli sguardi.
Cominciano le prime defezioni, per infortuni vari o per impegni presi, sostituite da altri che subentrano, la mattina successiva, dopo una notte tranquilla e via via più fresca, accompagnata dalle strida di qualche
uccello notturno, forse un gufo od un allocco sui tetti del Castello, che non mi lascia alcun turbamento, ma nel dormiveglia mi introduce in uno strano mondo esotico che subito evapora alle prime luci dell’alba
campagnola, con il canto del gallo antico che richiama la comunità alle faccende di ogni mattina.
La nostra consiste nell’arte nomade, dopo una colazione a base di tè e capuccini conditi da briosce bruciacchiate al forno. La seconda tappa comincia in una radura fuori paese, in cerchio una veloce seduta yoga defaticante,
poi seguiamo l’incedere di un torrentello lungo un vallone violentato dalla furia dei tagliaboschi,tanto che stento a ritrovare la traccia della Volsinia. Seguendo il fosso ci addentriamo tra le basi di colline ancora coltivate, ma presto
il sentiero si inerpica in un bosco spezzato da un antico frutteto abbandonato, ciliegi e noci giacciono inselvatichiti, l’erba alta li soffoca e la competizione per la sopravvivenza diventa dura. Saliti al colmo della collina già intravediamo
in cima all’erta la guglia turrita e i muri sbrecciati del paese di Migliano, che ci accoglie con il fresco abbraccio di un pozzo che ci offre una gran quantità di acqua di cui facciamo incetta, visto che la giornata sarà fotocopia della precedente in quanto a calura. Il paese è pieno di cani bastardi, che intonano il canto al viaggiatore errante, ma due si staccano dal resto
del gruppo e ci accompagnano per tutto il resto della seconda tappa, ben più di venti chilometri fino al monte Peglia, forse capendo istintivamente lo spirito randagio che aleggia nel gruppo dei camminatori. Il sentiero che scende nella stretta valle del Fersinone mi riempie sempre di emozione, pur avendolo fatto tante volte. I calanchi, la Rupefalcaia, la Forra Rosa, nomi
inventati da noi come se fossimo stati i primi esploratori di questi luoghi remoti, pur sapendo che non c’è più niente da esplorare se non la nostra anima inquieta. Forse lo sapeva anche quella coppia quando lei lungo il sentiero ci ha lasciato la vita: di quell’incidente è rimasto uno scarno simulacro attorno ad una pietra, qualche tavoletta in ceramica con parole
commoventi di rimpianto e tristezza, fragile simulacro dei ricordi umani,di vite trascorse insieme a condividere passioni, effige di vite destinate a perire, a scomparire anche dai ricordi, in balia dei cinghiali od altri animali, della pioggia e delle frane. Cosa rimarrà quando nessuno ricorderà più tutto questo? Sarà una cosa mai avvenuta? Il vagabondo non la sa la risposta, ma forse per lui può parlare il vento. Così mi allontano con passo leggero, come se avessi calpestato
una terra sacra al culto dei morti.
Il bosco fitto e tanti fiori ai margini del sentiero anticipano il guado del torrente, dove ci fermiamo a dare respiro ai nostri piedi
e ai nostri visi accaldati bagnandoli con le fresche acque del torrente, comunque quasi in secca. Qui la pineta offre scampoli di frescura che di malavoglia abbandoniamo per addentrarci fino al molino di Rotaprona, dove abbiamo il piacere di rincontrare Gianfranco,l’abitatore ventennale di questi luoghi angusti. Oramai vecchio si attacca a quel brandello di casa
pericolante, da lui abitata solo in estate, in somma solitudine,lungo l’ansa del fiume, a vederlo scorrere,anno dopo anno, sempre uguale e mai uguale, come quella volta che ha tirato giù il ponte pedonale appena a monte della casa. Una vita alternativa la sua,si diceva un tempo, scappato dalla grande città per vivere la pienezza della natura.
Ma ora vederlo così fragile e smarrito, oramai fuori tempo in un mondo che non dà scampo ai diversi, , vederlo così esangue attaccarsi a qualche scampolo di progetto mi immalinconisce, tanto che tronco bruscamente la conversazione
per allontanarmi da uno dei tanti “paradisi perduti”, che si sono rivelati essere solo prigioni con le sbarre in apparenza più larghe. Per chi ha le spalle ampie l’unica possibilità è non aver alcun progetto se non quello di vivere, il nomadismo come forma mentale.
Dopo il guado al ponte rotto, il tratturo si impenna implacabile, dopprima nel fitto bosco, in seguito sotto il sole allo zenit, succhiando velocemente la resistenza dei corpi grondanti di sudore. Presso il Poggio delle Capre, l’alta via che conduceva dall’Orvietano fino alla Valnestore, ci gettiamo letteralmente in terra, sopra un soffice tappeto di aghi di pino e li restiamo a consumare un frugale pasto di panini e frutta.Poi proseguiamo sfiorando il bosco della Serpolla, che si inerpica folto e minaccioso fino alle cime del monte di Fallera e Montarale. Ma noi oramai scendiamo, seguendo sempre la valle del torrente, tra campi abbandonati sotto il sole, casolari dai tetti sfondati e rari boschetti dove
asciutti fossi attendono le pioggie di fine estate, che presto arriveranno, anticipate da un venticello che batte sui nostri visi arrossati. All’inizio del territorio di Pornello la torre del Pofao, medioevale costruzione costruita in mezzo al nulla,come un faro illumina la nostra rotta, scendiamo lentamente planando fino al corso del torrente, seguendone
la linea per diversi chilometri fino all’incrocio della strada asfaltata dove un provvidenziale soccorritore ci toglie l’impiccio degli zaini che paiono diventati tre volte più pesanti. Non finiremo mai di rigraziare Giancarlo (e Fausto),
anche per l’apericena consumata in piena campagna, a base di patatine,crodino, birra e spritz. il vagabondo apprezza.
Per il resto, per arrivare alla fine della seconda tappa, alle pendici del monte Peglia, mancano ancora 7 chilometri, che verranno fatti solo per resistenza psicologica alla fatica,visto che il corpo non ha più niente da dare. Mi è parso
un esercizio alienante assai divergente dalla mia filosofia del cammino, che non contempla il sacrificio. Questa e’ una variante introdotta a suo tempo dal Cristianesimo. Vabbè, è solo un modo elegante per dire che mi sono ritirato e ho disonorevolmente accettato un passaggio in macchina.
A mia discolpa due tappe monstre, una di 27 e l’altra di 32 chilometri sotto un sole implacabile, e la preoccupazione per la tappa del giorno successivo, che secondo i miei piani doveva essere fatta a spron battuto fino ad Orvieto causa
la pioggia abbondantemente anticipata dal meteo per il pomeriggio successivo. La serata è stata molto bella, al Cerquosino, accampamento arrampicato sui contrafforti del Peglia, gestito dalla onlus Artemide e attivo nel territorio
a favore di situazioni di handicap e supporto al disagio giovanile, droga e alcool per intenderci. Non è da tutti venire accolti da un potente e ammaliante odore di lavanda che si spande per tutto l’accampamento, dovuto ai mucchi del
profumato fiore messi a seccare nella palestra del complesso. E poi l’ottima cena punteggiata da abbondanti libagioni, che hanno man mano sciolto il cuore degli astanti, dopo un’iniziale imbarazzo dovuto alle differenze di
età ed esperienze di vita. Ma si sa, un bicchier di vino, una chitarra ben suonata e le vecchie canzoni cantate a squarciagola,un po’ stonate e dalle parole dimenticate, scaldano il cuore anche del più cinico dei partecipanti. La
straripante energia ed entusiasmo di Carlotta e delle altre ha fatto la differenza. Situazioni che danno spessore al cammino del viandante, che la mattina successiva alle ore 6 viene svegliato dal ticchettio della pioggia sulla
finestra, dal tipico odore di foglie e terra bagnata…….arrivata in anticipo la perturbazione spezza la volontà di proseguire, accettiamo a malincuore un passaggio fino alla stazione di Orvieto mentre fuori si scatena un
acquazzone violento che segna la linea di demarcazione tra estate e primi approcci d’autunno. In attesa della coincidenza, mentre la pioggia scende a catinelle dalle pensiline della stazione,rimaniamo inermi ad ascoltare
le picaresche avventure di un vagabondo chiacchierone bolognese reduce dalla Coast-to-Coast(c2c), uno degli ultimi itinerari per viandanti nato in Italia, che congiunge il porto di Ancona alla città toscana di Orbetello.
Impressioni finali, la via Volsinia è un itinerario magnifico, rispettoso del cammino lento e della natura, a cui si appoggia completamente,dato che è l’unico percorso in cui si percorre al massimo il 10% su asfalto,mentre
per il resto si tratta di strade sbrecciate e sentieri.Inoltre se si intende proseguire si può entrare nella C2c ed arrivare al mare, oppure,alla tappa successiva percorrere la Francigena verso nord oppure scendere a Roma.Il periodo migliore per andare è quello delle mezze stagioni, l’estate può diventare caldissimo e l’inverno ci possono essere difficoltà nell’attraversare i guadi. Se si è allenati si può fare in tre giorni, ma consiglio di stemperarla e farla in quattro giorni.
Ma una cosa è certa, è un percorso che rifaremo per intero,magari il prossimo anno,al contrario,partendo da Orvieto per finire a Perugia.
Buon cammino.
La Ripa Murata
6 giugno 2020
Come detto in un altro intervento,la quarta tappa della via Volsinia permette,per i più avventurosi, di addentrarsi nel parco naturale dell’Elmo-Melonta,una delle zone di maggior pregio dell’area del monte Peglia. Come digressione alla vera tappa che porta alla città di Orvieto,oggi ho esplorato il bosco del fosso dell’Elmo ed ho trovato un altro gioiello naturalistico, che, al pari della laguna del Pelacane, merita assolutamente di essere visitato prima di incamminarsi verso la città della rupe. In fondo si tratta di allungare la tappa di solo qualche chilometro, ma ne vale la pena. Sto parlando della Ripa Murata,imponente bastione di roccia in verticale,alto decine di metri, frutto dell’erosione delle acque, ma anche dei sommovimenti tettonici che in milioni di anni hanno interessato la zona che,è bene ricordare, era fortemente connotata dalla presenza di vulcani attivi.Il torrentello si è scavato il percorso in un incredibile affioramento basaltico la cui caratteristica è quella di avere una forte pendenza,tanto da dare al luogo un senso di estraneamento,quasi che le leggi della gravità qui avessero un altro impatto. Il luogo,l’altezza della rupe,la massiccia struttura dell’affioramento fatto da rocce assolutamente piatte e direzionate obliquamente, non permettono a nessuna fotografia di rendere l’idea di quello che aspetta al visitatore ,ma comunque allego al racconto qualche foto che in parte rende l’idea e poi mapperò in gpx l’esatta traccia del percorso che conduce fino al sito.
https://www.alltrails.com/explore/map/map-fc394e9–15
La gola del Fersinone
24 maggio 2020
La gola del Fersinone presenta aspetti morfologici e geologici di grande interesse, in un biotipo unico, raro da trovare in queste zone lontane dagli Appennini. Naturalmente noi l’abbiamo visitata in quasi tutta la sua lunghezza,dal mulino di Rotaprona a scendere lungo il percorso che segna il confine tra le province di Perugia e Terni. Alla seconda ansa si incontra la “gorga del diavlo”, la piscina naturale più bella per fare il bagno. Sopra torreggia uno sperone di roccia quasi in verticale dove si apre la “buca del diavlo”, grotta carsica rifugio per viandanti e vagabondi che ebbero la ventura di passare da queste parti.
Le rocce sopra la pozza parrebbero appartenere al genere Scaglia rossa,piuttosto raro in zona. Proseguendo attraverso un sentiero seminascosto sopra la pozza ci si addentra abbastanza agevolmente per altri 500 metri, entrando a tratti nel letto del torrente che ha scavato nella roccia friabile il suo percorso……
Una altra ansa a destra introduce alla famosa” forra Rosa”, la parte più spettacolare dell’intero percorso, rocce calcaree bianchissime dove le limpide acque sinuosamente scendono da millenni…..
La forra è orlata sul lato sinistro idrografico dalla Rupe Falcaia, che scende per più di 100 metri precipitando sul corso del torrente, in un paesaggio mozzafiato che ci rimbalza a milioni di anni indietro nel tempo.
Dopo una svolta a sinistra proseguiamo sempre dentro il letto del fiume orlato da un fittissimo bosco fino a che il torrente si biforca lasciando al centro un isolotto di ciottoli e di pozze di acqua limpidissima,proprio sotto l’abitato di Migliano.
Ci vuole circa un ora per scendere fino a qui ed altrettanto per tornare al mulino di Rotaprona dove incrociamo il sentiero che ci riporta a San Vito a Castello.
Passato quasi un anno dagli ultimi passaggi sulla Via Volsinia, è cambiato tanto nella vita delle persone e della nostra società,per i noti fatti legati alla pandemia e alla paura che ancora ci attanaglia .E’ per questo che il ritornare sui nostri passi,nelle vie a noi conosciute, trovare quelle rocce sempre li’,quei passaggi magari un po’ più angusti,coperti da morbidi e profumati tappeti di ginestre in fiore,ritornare al sentiero che da Migliano scende verso il guado del Fersinone per poi risalire su fino a Borgo Casaglia e all’immensa Serpolla,trovare e sostare alla Rupefalcaia sempre superba a mostrare la stretta gola e le sue piscine naturali,beh ricorda il piacere di ritrovare le piccole cose a cui ci si affeziona quasi senza accorgersi,così,con naturalezza, cose che fanno parte del nostro orizzonte, quel punto di vista che magari ci fa amare
una cosa che a qualcun’altro non dice niente,come quei difetti che ci hanno un tempo fatto innamorare di una donna e che la rendono così unica.
Questo ritrovare lo stesso paesaggio,seppur di un color verde giovane e smagliante ci ha fatto tirare un sospiro di sollievo, la Natura ha messo il suo vestito più conturbante, i suoi profumi più fragranti e penetranti e noi,in fondo,non aspettavamo altro, dopo mesi a gettare sguardi alle nude pareti delle nostre camere e salotti,facendo finta che uno schermo blu potesse sostituire quello che non si puo’. E quindi
giù a capofitto nel bosco a querceto e lecci, in un orgia di fiori, primule, ginestre,mirto,tra profumi stordenti,sole accecante e improvvisamente caldo presso gli impluvi rocciosi di piccoli fossi tributari che scendono dai ripidi pendii collinari.Il guado sul Fersinone è stato un giocoso saltellare tra rocce, all’opposto di quello che successe l’anno passato con il torrente ingrossato dalle incessanti pioggie maggiaiole.
Poi siamo scesi a sinistra invece che proseguire il sentiero della Volsinia, accompagnando le placide acque che scendevano nella parte più remota della gola fino alla pozza più bella dell’intero percorso, La Gorga del Diavlo (Diavolo),in un paesaggio che diventava sempre più aspro e roccioso, ma anche di una sublime ed inquitante bellezza. La giornata è apparsa così calda e propizia che ci siamo tolti lo sfizio del primo bagno di stagione, nuotando nella profonda pozza,anche più di tre metri, tra lastroni di gigantesche rocce che fanno la guardia a questo gioiello incantevole,incastonato tra alte pareti e boschi impenetrabili. Sono sopraggiunti anche dei ragazzi a godere
di questo spettacolo; in cuor mio ho pensato che forse ancora non tutto è perduto se ancora ci sono giovani che amano la natura e che sentono il desiderio di difenderla.Presto li abbiamo lasciati a godersi gli scampoli della sera, ritornando sui nostri passi per completare il lungo anello e controllare che i segnali e le fettuccie lasciate lungo il percorso più accidentato della Volsinia fossero ancora al loro
posto. Ho notato con rammarico che Gianfranco,l’abitante della cascina presso il mulino di Rotaprona, si è trasferito, la casa oramai è cadente così come anche il punto ristoro. Più avanti,presso la diga che abbiamo attraversato per salire nel versante di Borgo Casaglia, sostava una numerosa famigliola a godere il fresco del meriggio fluviale. Poi abbiamo lasciato la gola e siamo risaliti fino al bivio,300 metri di dislivello, in un bosco orlato da grossi muri squadrati a confine di antichi appezzamenti coltivati,
oramai invasi da un fitto sottobosco residuo, fino alla sbrecciata che,girando a destra conduce a Gaiche e poi ancora a destra torna al nostro punto di partenza. Presso il paese di Migliano un gruppo di abitanti si allenava all’antico gioco del ruzzolone, questa volta con una forma in legno, un tempo si usava quella di formaggio. Quattordici chilometri abbondanti, contenti, anche un po’ stanchi , di quella stanchezza che rende più morbido accostarsi alla fine del giorno, giorno che ti riappacifica con i riti del passato.
Quarta tappa della Via Volsinia.
In una bella domenica ottobrina abbiamo concluso l’intero percorso della via Volsinia, camminando lungo i sentieri e le strade della quarta tappa, da localita’ San Marino- Fosso dell’Elmo, fino al cuore di Orvieto.Il ritrovo dei partecipanti era nel parcheggio dell’agriturismo Elmo, lungo la provinciale 101 che congiunge la cima del monte Peglia con la statale 71, a Pian di Vantaggio.
Il buon ottobre non ci ha fatto mancare una sottile nebbiolina che copriva i campi e i colli, presto diradata da un sole luminoso che ha accompagnato i nostri primi passi lungo una solitaria asfaltata che presto si e’ trasformata in una sterrata campagnola che si insinuava tra campi coltivati, oliveti e solitari boschetti. Il gruppo, non numeroso, presto si e’ sgranato,ognuno seguendo la propria indole, chi piu’ veloce, chi piu’ lento, ma sempre in buona armonia ed allegria. Dopo le avventure delle tappe precedenti, l’ultima tappa e’ scivolata via senza alcun problema, tra filari e vigne del prelibato vino orvietano e seminativi, tra digradanti e dolci colline che slittano lentamente verso la valle del fiume Paglia. Con noi c’era Ezio, che ha percorso in solitaria e con il figlio le prime tappe della Volsinia, e non ha voluto mancare all’appuntamento finale. Ci ha confermato che e’ molto facile seguire il percorso, sia attraverso le tracce GPS( su qualche punto invero poco precise), ma anche tramite le foto con segnavia postate sul sito, inerenti gli incroci piu’ importanti. Cio’ ci riempie di speranza riguardo la fruibilita’ di questo percorso, che spero venga sempre piu’ conosciuto dagli umbri,dagli italiani e dai tanti stranieri che qui vengono a fare escursionismo.
Un ultimo boschetto,sopra l’abitato di Ciconia, ci permette di accostarci alle sponde del torrente Chiani, che in questo punto si insinua in una valletta tra due aguzze sommita’, proprio davanti alla rupe di Orvieto. La vista della citta’ che appare all’altro lato della valle e’ bellissima. In localita’ La Svolta imbocchiamo il ponte Sandro Pertini, che attraversa il Paglia e che ci evita il corteo di macchine,inquinamento,rumori tipici delle periferie cittadine. Accostarsi ad Orvieto per questo ponte, poco transitato anche nei giorni feriali, risulta essere una felice scelta. anche perche’ attraverso i sottopassi dell’autostrada del Sole e della ferrovia Direttissima, ci troviamo rapidamente al parcheggio della funicolare che sale nell’acropoli cittadina.
Qui il gruppo si frantuma tra chi riprende la macchina, chi sale con la funivia e chi come me sale a piedi fino alla cattedrale, attraverso l’antica via basolata, chiamata oggi “Le Piaggie”,che sale quasi in parallelo alla funivia, fino alla piazza Cahen. Ma il bello viene dopo. Arrivati in cima giriamo a sinistra e seguiamo l’Anello della Rupe, percorso inserito nel Parco archeologico orvietano. Qui incontriamo la stupenda porta Rocca o Soliana e piu’ avanti delle cavita’ artificiali e l’acquedotto medioevale. Ci colpisce il coloro ocra intenso della parete rocciosa, che rende antichi i manufatti e le cose che incontriamo. Entriamo in citta’ da porta Romana, per l’imperdibile appuntamento con le foto di rito innanzi alla cattedrale di Orvieto. La promessa e’ mantenuta, da Duomo a Duomo. Rifaremo questa esperienza anche i prossimi anni, introducendo iniziative che riguardano anche le visite agli scavi archeologici dei nostri progenitori Etruschi.
Buon cammino .
Terza tappa della Via Volsinia.
Tanta pioggia ed umido ci accompagnano alla scoperta della terza tappa della
via Volsinia.Maggio anomalo ci regala una giornata simil autunnale, con tante
nuvole basse e gonfie di acqua che rendono magico il paesaggio che possiamo
ammirare dal castello di Migliano, luogo dove terminammo il percorso della
tappa precedente. Un vento da scirocco in ogni caso rende piuttosto calda l’aria,
cosa che si rivelera’ essenziale in seguito,dato i molteplici guadi che saremo
costretti a fare. Facciamo una foto ricordo sotto l’arco di un’antica costruzione
adiacente la chiesa del paese,ben attrezzati con kway,scarponi alti e vestiti
di ricambio, immaginando che arriveremo alla meta’ molto bagnati. Non sappiamo
ancora cosa ci aspetta, e che puo’ essere classificato come pura avventura.
Impazienti scendiamo lungo uno stradino sbrecciato fino al bivio dove un cartello
indica la direzione per la gola del Fersinone e la localita’ di Fibbino.Gia’ dagli
spalti del paese si sente il tuono dell’acqua che scorre impetuosa nella gola
preistorica sepolta sotto un bosco di un verde intenso, reso opalescente dalla
pioggia caduta ininterrottamente per tutta la notte.Basse nuvole orlano le
creste delle numerose rupi che si accavallano lungo il corso del sentiero.
Scendiamo mentra l’acqua delle pioggie crea fiumiciattoli in ogni anfratto,
prudenti per la paura di scivolare su rocce piatte e scivolose che ogni
tanto incontriamo in un terreno prevalentemente marnoso a scaglie.
La sosta alla rupe Falcaia offre lo spettacolo superbo della gola rocciosa
attraversata dalle limacciose acque del torrente. Un piccolo Colorado, con
la rupe che scende brutale, a picco, per decine di metri fino all’alveo del
corso d’acqua. Presi dall’entusiasmo continuiamo a scendere lungo il
sinuoso sentiero fino al guado. Qui il bosco si infittisce e rilascia tanta
acqua, ad ogni scuotimento e’ una doccia gelata.Penso tra me e me che non
ce la possiamo fare ad attraversare il torrente, la piena nasconde molte
insidie e molte persone del gruppo non hanno molta esperienza di trekking.
Dove il sentiero incrocia il letto del fiume infatti troviamo il guado completamente
allagato. Qui gli altri mi stupiscono, risoluti ad attraversare a tutti i costi.
Ed in effetti, con pazienza, si riesce a trovare un punto tra le rocce, dove l’acqua
ci copre solo fino al ginocchio.Passiamo anche se l’impeto delle acque ci mette
in soggezione. Ci rilassiamo un poco nella magnifica pineta di Rotaprona, che
prende il nome da un antico mulino, uno dei numerosi che si incontrano
nelle nostre contrade, memorie di una civilta’ agricola estinta. Qui vive
Gianfranco, un nomade hippie che qui si e’ trasferito fuggendo dalla grande
citta’ da almeno trenta anni, in un casale presso il mulino.Dopo i saluti
proseguiamo fino al Ponte Rotto, memoria di un’altra micidiale piena che ha
danneggiato il manufatto.Riusciamo a passare dall’altro lato tramite una chiusa
poco piu’ a monte, e poi risaliamo fuori dalla gola attraverso un percorso tra
roccette un po’ infido, che bonifico con una fettuccia di sicurezza nei punti
piu’ esposti. Ora il tracciato si fa agevole,attraverso una campagnola che si inerpica per circa due chilometri fino all’abitato di Borgo Casaglia.
La strada sbrecciata ora rasenta in orizzontale il vasto bosco della Serpolla, che sale in alto fino ai contrafforti del Greppolischieto, antico fortilizio dominante la valle sottostante,che ora si apre offrendosi allo sguardo fin sotto le torri in cima al monte Peglia. Il gruppo e’ sgranato e scende di buon passo riavvicinandosi nuovamente al torrente Fersinone,in un bosco che lascia sempre piu’ spazio a campi seminati od incolti, orlati da fossi gorglianti le acque di scolo. Incrociamo un paio di daini che fuggono spaventati in mezzo ai campi di grano,sfioriamo dei boschetti ripariali finche’ smettiamo di scendere all’altezza di un secondo guado,molto piu’ agevole da superare dato che l’acqua corre bassa in un manufatto di cemento.
Noto stanchezza nei volti degli amici, ma anche divertimento.E come se gli ostacoli, i vestiti fradici, le scarpe infangate avessero risvegliato quella solidarieta’ cosi’ rara da trovare oggi. Ci si riaccosta alla fatica, si riprende possesso del corpo e della sua strabiliante forza,dimenticata in uggiose giornate passate seduti su sedie con l’unica compagnia di un computer.
Pian dell’Acqua e’ un enorme vallone che il torrente ha percorso da millenni prima di entrare nelle gole.Qui le colline sono piu’ sottili e il limo del fiume ha creato una piccola pianura che e’ assiduamente coltivata a cereali. Questo luogo e’ incubatore del torrente, qui infatti diversi affluenti ivi confluiscono, aumentandone grandemente la portata. Infatti la carrareccia che percorriamo,parallela al Fersinone, e’ traversata ben due volte da guadi che saltiamo, oramai fradici da testa a piedi, con assoluta noncuranza.
Ma gia’ la meta finale si intravede, preceduta da un antico guardiano che domina la valle dall’altro lato del nostro cammino:una snella eppur possente struttura fortificata di epoca medievale – la Torraccia -, detta anche torre del Pofao (dal toponimo del casale limitrofo): nonostante la predazione di pietre angolari e dei conci delle aperture, è ancora staticamente integra, grazie alla pregevole esecuzione dell’opera muraria, la cui malta durissima lega ancora perfettamente la pietra, magistralmente scalpellinata.
La Torraccia, recentemente ristrutturata, è di epoca medievale: ha forma quadrata con lati di 5,40 m e un’altezza di 19,50 m. Serviva al controllo del territorio che, lungo le rive del Torrente Fersinone, poteva permettere il passaggio di consistenti guarnigioni del Palazzo Bovarino a Frattaguida, sotto Pornello e verso Perugia, attraverso l’alta via su Poggio la Capra e per Collebaldo; oppure da Orvieto attraverso il monte Peglia e
San Vito in Monte . La Torraccia poteva inoltre controllare i possibili guadi per
attraversare il torrente i cui vasti campi adiacenti fanno immaginare in quel tratto la possibilità di spiegamenti di forze militari con ampio uso della cavalleria.
Nel Pian dell’Acqua il paesaggio s’è mantenuto integro come nelle precedenti epoche storiche, grazie alla scarsa antropizzazione. Di conseguenza anche la qualità delle acque del Fersinone è straordinaria: l’ambiente naturale, ancora intatto, permette lo sviluppo di interessanti biotipi a tutti i livelli, vegetale, animale e fungino. E’ accertata tra l’altro la presenza del lupo, del gatto selvatico e, seppur incerta, della lontra.
Prima di arrivare a Pornello, e’ doverosa una visita alla suggestiva chiesetta di campagna, dedicata alla Madonna del Piano, i cui affreschi risalgono al XVI secolo.Qui, nella corte della chiesetta sostiamo in un laico raccoglimento,mentre ne osserviamo la semplice forma in pietra scolpita. Pornello è menzionato nel Sinodo del 1649 come castello appartenente alla Vicaria di Palazzo Bovarino, ma per noi e’ solo il punto di arrivo di una tappa che ci ha riservato forti emozioni attraverso paesaggi integri e dalla scarsa antropizzazione. Sostiamo appagati, sotto la tettoia di un’accogliente casa,
tra panini al prosciutto e generosi bicchieri di rosso vinello locale,mentre una sottile pioggia aumenta la sua portata bisbigliando ai nostri corpi
la languida dolcezza del meritato riposo.
Inaugurazione della Via Volsinia. Prima tappa.
Quando ci portiamo in piazza iv novembre, nel cuore della
vecchia citta’,ci accoglie un gelido vento di tramontana, che
allontana i perugini dallo struscio domenicale e dalle colazioni
di Sandri e del Medioevo, bar che contano in Corso Vannucci.
I Vagabondi e gli amici del Trekking Anello d’oro arrivano
alla spicciolata, causa anche un guasto al Minimetro, tutti
imbacuccati come in pieno inverno. I segnali negativi si allentano
davanti alla Fontana, quando incontriamo due ragazzi che
intraprendono un viaggio Perugia-Sorrento in tandem, progetto
assolutamente folle, che fa sembrare borghese l’inaugurazione
della Via Volsinia. Dopo le foto di prammatica verso le nove e trenta
ci incamminiamo da Corso Vannucci, mentre un timido raggio di
sole pare incoraggiarci.Scendiamo dalle “plastiche” scalette di
S.Ercolano,entrando nel “Borgobello”,uno dei quartieri piu’ vivaci
e gradevoli della citta’. In piazza Giordano Bruno il loquace Odorico,
accanto al pozzo tatuato da una conchiglia compostelliana, ci racconta
medioevali storie, poco edificanti, di intrighi papali e avvelenamenti.
Proprio in un vicolo accanto c’e’ l’antico portone della Santa Inquisizione,
dove i Domenicani imprigionavano i “nemici” della Chiesa. L’anima
profondamente antireligiosa della citta’ ha voluto dedicare al grande Eretico
Giordano Bruno proprio la piazza in faccia a questi obbrobri storici.
Proseguiamo per i vicoli adiacenti San Domenico fino alla via del Labirinto,
dove risiedono le memorie storiche di una pregevole fabbrica di ceramiche
artistiche e soprattutto la galleria d’arte all’aperto con i vetri lavorati
dal grande artista perugino Gerardo Dottori, che ivi nacque l’11 novembre 1884.
Usciti dall’Arco di Borgo xx Giugno,non prima di aver degustato
un forte caffe’ aromatico al bar Cavour, tutta la storia della citta’ ci
passa accanto tra stele e monumenti che ricordano il sacrificio dei
martiri e la liberazione prima dallo Stato Pontificio e poi dal
nazifascismo 85 anni dopo.
Questa uscita dal lato sud-est della citta’ e’ un vero scrigno di tesori,
che possiamo solo sfiorare, come la monumentale e misterica chiesa
di San Pietro, con l’imponente campanile e i chiostri interni sede
di una delle facolta’ di agraria piu’ prestigiose d’Italia, il fresco
Orto Botanico e, in faccia ad esso, i giardini del Frontone,con le sue
statue rappresentanti le Muse. Uno dei luoghi piu’ freschi e amati
dai perugini.
Oltre la seconda porta di uscita dalla cinta urbana,
ancora troviamo a sinistra la facolta’ di Veterinaria e a destra la,
chiesa di San Costanzo dove i perugini portano a benedire il torcolo
nel giorno a lui dedicato.Le gambe in discesa girano veloci e cosi’
ci ritroviamo dopo neanche 2 chilometri nella prima periferia cittadina,
accanto ad altri testimoni monumentali della storia industriale cittadina,
come la gigantesca sede della Fiat,ora dismessa, con un imponente
padiglione esteso per migliaia di metri quadri, soggetto ad incuria ed
abbandono.Qui sono venute generazioni di famiglie a comperare le prime
500,Bianchine, 600 multiple, quando ancora non esistevano le concessionarie.
Prima che l’alienazione urbana data da traffico e cemento ci colga,
una strada laterale ci conduce repentinamente in pieno fosso dell’Infernaccio,
lingua di verde che si insinua fin quasi sotto il centro cittadino.Niente asfalto,
niente smog,niente rumori, potreste forse sentire qualche cane abbaiare
in un recinto oppure il rumore di una zappa che apre la terra in qualche
orto privato. Ci si sente gia’ in piena campagna pur essendo ancora
nell’area urbana. E’ la antica via Regalis che dalla Porta Eburnea si
estendeva verso le sue campagne di competenza, giu’ fino agli antichi
castellieri di Pila,Badiola, Mercatello. Lungo questo asse possiamo
misurare visivamente come l’area urbana sfumi in lontananza, con gli
orgogliosi campanili di S.Domenico e S.Pietro sempre piu’ piccoli e
appiattiti sulla cresta del colle un tempo detto Landone, orgoglio
della Perugia Etrusca e Medioevale.Passata la cintura stradale tra
Settevalli e Marscianese incontriamo gli ultimi agglomerati abitativi
dell’estrema periferia,come Vestricciano Genna, modesta collinetta che
immette,dopo il fosso Infernaccio, nella valle del torrente Genna, modesto
torrente che ha l’immensa sfortuna di scorrere nella periferia superabitata
ed industriale della citta’,essendo forse la via d’acqua piu’ inquinata
della provincia di Perugia.Ma cio’ non toglie che questo irrisorio torrente
abbia creato nei millenni una deliziosa valletta, a volte larga solo poche
decine di metri, tra le collinette di Boneggio da una parte, e di Pila dal’altra.
Quasi sotto Pila la valle si fa piu’ larga, ampia e piatta come diversi campi
da calcio. E’ qui che decidiamo di pranzare in allegria, dopo circa nove
chilometri di cammino. Aldo, che ci ha preceduto, ci ha preparato un
inpeccabile pranzo a base di minestra di legumi, salsicce alla brace e
diversi dolci buonissimi preparati dalle meravigliose ragazze del gruppo.
Qui ci separiamo, il gruppo dei Vagabondi prosegue il percorso della
prima tappa della Via volsinia fino alla fine, proseguendo sempre nel
fondovalle del torrente,fino a passare sull’altra sponda attraverso
un ponticello pedonale.
Qui i campi sono verdissimi e coltivati a favetta, cereali e vigneti.
Sotto l’abitato di Badiola una marcita ricchissima di
acque irreggimentate con laghetti artificiali e fossi poderali segna il
confine tra i comuni di Perugia e Marsciano. Le colline prospicienti
paiono onde dell’oceano, verdi sfavillanti, cavalcate sulle creste dai
piccoli paesi agricoli raggruppati intorno al campanile. Un orribile
monumento al viandante, costruito in metallo e devoto a Santa Susanna,
con un effige di poche e semplici parole, poi piu’ avanti un albero
solitario nei campi, ci indicano la poderale che sale verso Badiola.
Entriamo nella parte piu’ anonima del paese, in un vialetto coperto
di agave che dovevano abbellire una casa padronale che ha
conosciuto tempi migliori. Appena entrati in paese, se non si ha
bisogno di acqua, se ne puo’ uscire immediatamente passando
sotto il campo sportivo e in seguito davanti ad una rossa edicola
votiva in onore della Madonna.
Il sentiero prosegue sull’orlo di un campo fino ad un boschetto ed
in seguito fino ad un piccolo agglomerato di case, che apre la vista verso
la Strada Settevalli e la collina prospiciente che ospita il paese
dove finisce il nostro cammino odierno: San Biagio della Valle.
Sonnecchioso paesino che ci accoglie con indifferenza in un
tardo pomeriggio primaverile, mentre sottili goccioline cominciano ad
imperlare le prime foglie primaverili dei cespugli e dei fili d’erba ai
margini della strada. Sono un poco piu’ di 18 chilometri in un
paesaggio che ha visto sfumare la citta’ in una campagna sempre
densamente lavorata e punteggiata da ville e casali che un tempo
erano luoghi di osservazione e controllo del contado perugino.
Seconda tappa Via Volsinia.
La seconda tappa e’ quella del paesaggio che cambia, passo dopo
passo lasciamo la civilta’ agricola per addentrarci su colline sempre
piu’ boscate.Ci addentreremo in una delle gole piu’ selvagge create
dal certosino lavoro del torrente Fersinone.Ma andiamo con ordine.
Il campanile della chiesa di San Biagio segna lo start della tappa,
l’allegra compagnia lascia il minuscolo paesino uscendo dal lato
campi sportivi per addentrarsi in un tratturo campagnolo che solca
i campi ancora bagnati dalla brina mattutina.Il terreno e’ soffice e
piacevole, il gruppo scivola lentamente sino ad una colonica dove
il tratturo si biforca, noi prendiamo a sinistra fino a che ritorniamo
sull’asfalto,da lontano vediamo un viale di cipressi verso cui
dirigiamo i nostri passi. Ancora piccoli incroci mentre di lato appare
nel bordo della collina il paese di Spina,devastato da un recente
terremoto che ne ha pregiudicato il centro storico, fatto di case con
pietra e malta che male hanno resistito all’urto sismico. L’orizzonte
e’ spezzato da gru incombenti sopra i tetti del paese,contrapppasso
di un paesaggio tornito da rilievi dalla morbida sinuosita’, del
colore del grano acerbo impreziosito dal verde oscuro di lunghe file
di cespugli sui fossi.Sulla destra,in fondo alla valle, a guardar bene,
seminascosto da grandi alberi secolari, spunta la testa merlata del
Castello di S.Apollinare, che ha subito una lungo periodo di restauro,
diventato location di un festival jazz estivo, condito da robusti assaggi
di vino dell’azienda vinicola autoctona, che produce anche ottimi oli
di oliva extra.
Noi proseguiamo diritti, in fila indiana, come soldati, in
una strada bianca e polverosa che poi diviene sentiero ai limiti del
bosco, fino a che scorgiamo il tipico ponte in muratura a sella d’asino,
che scavalca il fiume Nestore, il fiume alfa della zona,quello di cui
tutti gli altri sono tributari. Presso il ponte c’e’ una chiusa storica,mi
pare recentemente restaurata; oltre il ponte si entra nel piacevole
paesino di Mercatello, all’incrocio di fossi e strade che ivi
confluivano tra le colline di Cibottola,Montevibiano,Spina,
Montelagello. Nome omen,era chiaramente un sito di commerci
e scambi, testimoniato anche da un edificio, all’incrocio del paese,
provvisto di un portico ad archi,ora in cattivo stato, che fu nel
Medioevo luogo di accoglienza di pellegrini che qui sostavano.
Ci fermiamo per un piacevole stop all’osteria del paese, tra caffe’
e colazione, prima di lasciare a malincuore questo luogo perfetto.
E’ questa zona preziosa avendo anche nel suo scrigno le meraviglie
di Montevibiano Vecchio, imponente castello con fantastico
giardino all’italiana, adibito a resort di lusso. L’azienda agraria a cui
fa capo produce ottimo olio e vino che distribuisce e commercializza
nella moderna enoteca di Mercatello, fornita di un ottimo wine bar.
Storicamente si ricorda anche che Montevibiano prende il nome
dall’antica gens etrusca dei Vibii,e che, in epoca romana, diede
i natali all’imperatore romano Treboniano Gallo nel terzo secolo d.c.
Dopo il paese ci addentriamo in un sentiero tra colline boscate, seguendo
il corso di un rio che ci costringe a diversi guadi piu’ divertenti che altro.
Lo seguiamo a lungo, salendo lentamente di quota fino all’incrocio della
strada per Montelagello, altro fortilizio oggi recuperato a residenza di lusso
con piscina e spa. Salendo a sinistra e lasciando per un po’ il sentiero,in
localita’ Fornace troviamo il sito restaurato che testimonia la presenza di
un antico edificio atto alla produzione dei laterizi di Compignano.
Ritornando nella via Volsinia, recuperiamo il corso del torrente che ci
accompagna in fondovalle tra colline ancora per un po’, fino a che rilievi
piu’ aspri ci sbarrano la strada e ci costringono a salire un po’ in quota,
lasciando i campi coltivati per addentrarci in un bosco ai piedi dell’abitato
di Migliano.Il bosco qui e’ tipicamente umbro, roverella e leccio,
in aumento anche la fauna con la presenza di ungulati come cinghiali e
daini,lepri,istrici.Salendo in collina passiamo per un frutteto abbandonato,
noci e ciliegi, incontrando anche una postazione fissa per la caccia ai
colombacci.In cima al rilievo girandosi possiamo ancora vedere la citta’
che appare lontana, disegnando con lo sguardo lo spazio che abbiamo
percorso in questi due giorni di cammino. Passata Migliano non vedremo
piu’ Perugia, perche’ scenderemo nella forra del Fersinone.Migliano e’ un antico
castellare al confine delle tenute comunali di Orvieto,Marsciano e Perugia.
Il colpo d’occhio che si puo’ ammirare da qui e’ eccezionale,di fronte la valle
boscata del torrente,su su fino a Greppoleschieto e Montarale,nel piegarese,
nell’altro lato il colle di Poggio Aquilone, altro luogo strategico appena sopra
la piana di Marsciano, dietro le colline digradanti appena percorse fino ad ora,
con nello sfondo l’immensa mole del monte Subasio a sud e del complesso
Tezio-Monte Acuto piu’ a nord.
Migliano fungeva da luogo di osservazione grazie alla sua invidiabile posizione.
Sulla collina di fronte troneggia S.Vito a Castello,ancora piu’ in alto,
circondata da immensi boschi e dal sinuoso gomitolo del torrente
sottostante.Ci portiamo nel punto piu’ alto e cuciniamo un ottimo
pranzetto accanto alla chiesa parrocchiale, grazie all’indulgenza delle
famiglie locali che ci permettono l’uso di un bel tavolo da picnic, sotto un
albero di magnolia e al riparo da un teso e fresco vento che spira da nord-est.
Per questa volta il sentiero cai che scende al fiume puo’ aspettarci, cosi’ come
Rupefalcaia, la Forra Rosa e la Grotta del Diavolo,siti che si incontrano
scendendo verso il letto del fiume Fersinone, che segnala il trapasso dalla
provincia di Perugia a quella di Terni.Abbiamo percorso almeno 14 chilometri
e il lauto pranzetto organizzato da Aldo ricompensa lo sforzo profuso. Antipasti,
minestra di cereali, le onnipresenti salsicce e tanti dolcetti, allietati dal generoso
vino rosso locale rendono la giornata impareggiabile, in armonia e amicizia come
dovrebbe essere sempre.
….